La plastica monouso ammonta al 36% del totale, richiede sempre più petrolio e nasce per diventare rifiuto. La bioplastica, però, non è la soluzione definitiva, soprattutto quella rigida: ecco alcune info utili al riguardo.
Il problema della plastica è sempre più ingombrante, tant’è che Greenpeace ha lanciato l’inchiesta “Carrelli di plastica“ per porre l’attenzione sulla quantità di plastica, spesso monouso, che inconsciamente inseriamo nel nostro carrello ogni volta che facciamo la spesa.
Un’attenzione nuova e particolare è dedicata al materiale che sembrava dover rivoluzionare il mondo degli imballaggi in plastica, ovvero la bioplastica.
Cos’è la bioplastica?
Con il termine bioplastica si intende una sostanza plastica composta – almeno in parte – da biomassa organica invece che dalle tradizionali molecole derivanti dal petrolio.
Tra le materie prime rinnovabili più utilizzate per la produzione di bioplastica troviamo l’amido e la cellulosa, spesso derivati dal mais e dalla canna da zucchero. Le plastiche “bio” però, pur differendo dai polimeri più comuni a base di petrolio, non sono sempre biodegradabili: quelle che non si decompongono nel giro di settimane o mesi vengono infatti definite “durevoli”. Se, ad esempio, buttiamo una bottiglietta d’acqua in bioplastica nel mare, passeranno anni prima che questa si dissolva.
Dove troviamo più spesso la bioplastica?
Il settore alimentare e beverage è il settore che più di tutti, al giorno d’oggi, sfrutta la bioplastica per la produzione di contenitori alimentari, buste della spesa, utensili biodegradabili e molto altro, ma è altrettanto vero che questo particolare materiale esiste da più di cento anni: olio di mais e di soia erano due elementi usati nella fabbricazione di alcune parti delle macchine Ford.
In breve, questi materiali si sono fatti strada in molti settori industriali, dall’automotive all’elettronica, dall’agricoltura al tessile.
Quali sono gli ostacoli al suo smaltimento?
Il primo ostacolo è implicito nel materiale stesso: le bioplastiche rigide impiegano anni prima di degradarsi. Esistono polimeri plastici a base di petrolio che, in condizioni ottimali, si decompongono più in fretta delle loro controparti a base di biomasse organiche.
Ma il vero tema legato a questo materiale è che spesso viene utilizzato come mero strumento di greenwashing. Infatti anche volendo riciclare correttamente l’imballaggio, la biodegradabilità è spesso vera solo in teoria, a causa delle carenze degli impianti di smaltimento.
Gli impianti di compostaggio lamentano la mancanza di una filiera di smaltimento dedicata e si dichiarano incapaci di trattare la plastica compostabile conferita insieme ai rifiuti organici. Alia Servizi Ambientali SpA, società di gestione dei servizi ambientali della Toscana Centrale, ha diffuso una nota molto chiara:
“Nell’attesa di una filiera dedicata i manufatti in bioplastica rigida devono essere conferiti nel contenitore dell’indifferenziato.
Ad oggi, gli shopper in Mater-Bi sono le uniche bioplastiche compatibili con le condizioni dei processi di compostaggio, mentre i manufatti in bioplastica rigida si biodegradano a condizioni e tempistiche di processo diverse e comprometterebbero l’intera produzione di compost.”
In questo clima di allarme nasce la Direttiva Europea Sup (Single Use Plastics) che dal 3 luglio 2021 vieta l’utilizzo di determinati prodotti in plastica monouso per i quali esistono alternative in commercio. Ma ad essere vietati sono anche i prodotti in carta rivestiti da film plastici (come piatti e bicchieri) e i prodotti in plastica biodegradabile, per i quali il nostro Paese, leader nel settore, ha previsto un’eccezione (aprendo così un contenzioso con l’Europa).
Cosa fare quindi?
Purtroppo, la soluzione è solo una: cercare di evitare la plastica partendo dalla nostra posizione di consumatori e, come suggerisce Greenpeace, evitando già dal carrello della spesa il più possibile imballaggi monouso, che nascono già per essere rifiuti.
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